A un anno dal Giubileo degli Artisti. Micol Forti: «Per ogni artista sarà l’occasione per dialogare con il suo interlocutore più Alto»
«Per gli artisti, venire a Roma per il Giubileo significherà scegliere il confronto con il proprio orizzonte più alto, che è lo Spirito», ha sottolineato Micol Forti, direttrice della Collezione di Arte contemporanea dei Musei Vaticani. Fra un anno esatto migliaia di artisti da tutto il mondo saranno a Roma per vivere il Giubileo degli Artisti, che si celebrerà dal 16 al 18 febbraio 2024.
Ma che rapporto c’è tra l’esperienza dell’Anno santo e l’ispirazione artistica?. «Il Giubileo per un artista è l’opportunità di dialogare con il suo interlocutore più alto. - ha spiegato Forti - L’arte, quando è sublime, in fondo è sempre religiosa. E gli artisti, quando sono tali, anche se non hanno una fede, o ritengono di non averla, sono spesso produttori di opere “religiose”. L’arte infatti ha proprio la capacità di cogliere il mistero, di incarnarlo, di renderlo accoglibile attraverso le forme, i suoni, i colori, le parole». Un artista, dunque, è colui che tenta di rendere visibile l’”indicibile” e per farlo deve necessariamente nutrirsi. «È questa la grande forza, la straordinaria e misteriosa capacità di “creare”, che l’uomo-artista condivide con il primo Creatore, che è Dio». Paolo VI descriveva gli artisti come «poeti» e «profeti», oggi Papa Francesco li definisce «bambini» e «profeti». «Ecco, credo che questa “infanzia” innata, questo istinto alla gioia dell’artista, questa capacità di vedere oltre e più profondamente, di “afferrare” il senso oltre la razionalità, siano un assoluto mistero e un grande atto di fede per ciascuno».
Gli artisti, a Roma, saranno anche “Pellegrini di Speranza”. «L’arte è speranza, - ha continuato la direttrice, - l’arte tutta, nel momento in cui affronta il dolore e la sofferenza, riesce a farlo perché in quella sua visualizzazione di immagini, parole, suoni, gesti, movimenti del corpo, c’è anche la Risurrezione. Nell’opera c’è già la possibilità di una nuova vita che risiede nel superamento di quella ferita, quel dolore, quella tragedia». L’arte «contiene in sé la gioia che è nell’incarnazione della bellezza, e insieme la possibilità di vederla anche dove questa sembra non esserci. Essere capaci di raccontare la sofferenza, significa farsi carico anche dell’orizzonte della speranza. La grande arte, anche quando racconta una natura morta o un paesaggio statico, ha sempre con sé questo elemento di trasfigurazione in qualcosa che va ben oltre l’uomo».
Dall’artista alle opere d’arte di cui i pellegrini, nel 2025, potranno fare esperienza a Roma anche da turisti. «La parola chiave è “contemplazione”, un termine con cui non abbiamo più consuetudine che invece è fondamentale. Significa lasciarsi “appartenere”, lasciarsi accogliere da una immagine, un testo, una musica, quando nel suo mistero ci coinvolge da dentro, e ci restituisce qualcosa che non si può afferrare solo con gli occhi. La possibilità per i pellegrini che verranno a Roma per il Giubileo, di partecipare ai magnifici tesori della nostra città, potrà restituire loro la consapevolezza che il rapporto con l’opera non è mai un boccone da ingoiare, ma è sempre un prezioso cibo da assaporare, da gustare». Apprezzare l’arte, però, ha bisogno di un tempo senza fretta. «Il tempo è il grande lusso del nostro presente, ma è anche il grande segreto per penetrare la bellezza, per ricevere da essa la speranza di una nuova vita, di un miglioramento di noi stessi e di ciò che ci circonda. Quel tempo “lento” è anche il tempo della fede. Sappiamo come la fede sia una conquista costante, quanto non sia un traguardo che una volta raggiunto rimane stabile, e come la fede anche la bellezza va riconosciuta nel tempo e conquistata con amore, con umiltà e dedizione». Quello che ci si può augurare per i pellegrini è che «la contemplazione di quello che proveranno attraversando la Porta santa, visitando le Basiliche maggiori, camminando per Roma, gli possa restituire quel prezioso spazio che c’è fra l’oggi e l’eternità che un’opera d’arte riesce sempre a custodire. Perché la vita di un’opera è molto più lunga della nostra e riesce a darci la percezione che esiste un’eternità racchiusa nella bellezza».